Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. 21.03.2025 n. 2355
L’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, prevede che “L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori”.
L’art. 208, del d.lgs. n. 152/2006, attribuisce la competenza a rilasciare l'”Autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti” alla Regione all’esito di una Conferenza di servizi cui partecipano “i responsabili degli uffici regionali competenti e i rappresentanti delle autorità d’ambito e degli enti locali sul cui territorio è realizzato l’impianto, nonché il richiedente l’autorizzazione o un suo rappresentante al fine di acquisire documenti, informazioni e chiarimenti”, quale modulo procedimentale di emersione e comparazione di tutti gli interessi coinvolti, anche locali, nell’ambito dell’autorizzazione stessa.
Segnatamente, alla Conferenza di servizi in esame la legge demanda il compito di acquisire e valutare tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con quanto previsto dall’articolo 177, comma 4, del d.lgs. n. 152/2006, ovverosia che la gestione dei rifiuti avvenga “senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente e, in particolare: a) senza determinare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo, nonché per la fauna e la flora; b) senza causare inconvenienti da rumori o odori; c) senza danneggiare il paesaggio e i siti di particolare interesse, tutelati in base alla normativa vigente”.
La Conferenza di servizi è destinata, quindi, a concludersi con una decisione “assunta a maggioranza e le relative determinazioni devono fornire una adeguata motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza”. Tale “decisione”, tuttavia, ha valenza solo endoprocedimentale, poiché, “entro 30 giorni dal ricevimento delle conclusioni della Conferenza dei servizi”, spetta alla Regione valutarne le risultanze e, “in caso di valutazione positiva del progetto, autorizza la realizzazione e la gestione dell’impianto”. L’approvazione così adottata “sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori”.
Il potere autorizzatorio della Regione costituisce, peraltro, espressione della più ampia competenza regionale di predisporre e adottare i piani (regionali) di gestione dei rifiuti, sentite le province, i comuni e, per quanto riguarda i rifiuti urbani, le Autorità d’ambito di cui all’articolo 201.
Sul piano sistematico, inoltre, l’art. 15, comma 2, del testo unico edilizia prevede che “Per gli interventi realizzati in forza di un titolo abilitativo rilasciato ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, il termine per l’inizio dei lavori è fissato in tre anni dal rilascio del titolo”.
Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, chiaramente ispirato all’esigenza di allocare le scelte definitive in ordine alla individuazione dei siti da destinare all’insediamento degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti ad un livello di governo superiore rispetto a quello dell’ente comunale nel cui territorio dovrebbe essere insediato l’impianto sottoposto ad autorizzazione, occorre evidenziare che l’autorizzazione unica regionale disciplinata dall’art. 208, d.lgs. n. 152/2006 costituisce anche titolo abilitativo edilizio alla realizzazione dell’impianto di smaltimento o recupero di rifiuti, posto che le autonome e specifiche attribuzioni in materia spettanti all’amministrazione comunale rifluiscono nella prevista Conferenza di servizi, in cui viene coinvolta la stessa Amministrazione comunale e che rappresenta il luogo procedimentale deputato alla complessiva valutazione del progetto presentato.
Nel provvedimento autorizzatorio in esame sono state, cioè, riunite e concentrate dal legislatore tutte le competenze amministrative di verifica e controllo di compatibilità con le varie prescrizioni urbanistiche, di pianificazione settoriale, nonché l’accertamento dell’osservanza di ogni possibile vincolo afferente alla realizzazione dell’impianto in armonia col territorio di riferimento, dal momento che l’art. 208, comma 6, D.Lgs. n. 152/2006, assegna al provvedimento regionale conclusivo del procedimento una funzione sostitutiva di tutti gli atti e provvedimenti ordinariamente di competenza di altre autorità territoriali, ivi compresa l’eventuale variante urbanistica.
Tanto premesso, ad avviso del Collegio, la ratio del citato art. 12 va ravvisata nell’esigenza di favorire le iniziative volte alla realizzazione degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, semplificando il relativo procedimento autorizzativo e concentrando l’apporto valutativo di tutte le amministrazioni interessate nella conferenza dei servizi.
In tal senso è orientata anche giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui l’autorizzazione unica costituisce il nuovo titolo edilizio direttamente legittimante la realizzazione dell’impianto, posto che le autonome e specifiche attribuzioni in materia spettanti all’amministrazione comunale rifluiscono nella prevista conferenza di servizi che rappresenta il luogo procedimentale di complessiva valutazione del progetto presentato (C.G.A., sez. I, 21 maggio 2018, n. 295).
Se, dunque, si è al cospetto di un procedimento che nasce proprio con la finalità di sostituire i provvedimenti di competenza delle singole amministrazioni coinvolte nella conferenza di servizi finalizzata al rilascio dell’autorizzazione unica, ne dovrebbe coerentemente conseguire l’incompetenza del Comune ad azionare quei poteri di secondo grado, tra cui quello di decadenza, sui titoli edilizi che normalmente gli competono.
Diversamente ragionando, si vanificherebbe la portata dell’art. 12, attribuendo ai comuni la capacità di paralizzare l’autorizzazione rilasciata.
A sostegno di questa conclusione depone anche l’argomento che fa leva sulla necessità di rispettare nell’ambito di un procedimento di secondo grado il medesimo procedimento finalizzato all’adozione dell’atto su cui si interviene.
La competenza ad adottare provvedimenti di secondo grado in relazione all’autorizzazione unica in esame, contrariamente a quanto assume il Comune appellante, non può, del resto, trovare fondamento nell’art. 27, del d.P.R. n. 380 del 2001.
In effetti, i poteri di controllo e di vigilanza, previsti da quest’ultima disposizione normativa, a rigore, si collocano o a valle dell’avvenuto esercizio dell’autotutela, avendo l’eventuale annullamento del titolo reso illegittimo un intervento che originariamente non lo era, ovvero del tutto al di fuori della stessa, per verificare, cioè, altri profili di illiceità che si collocano comunque al di fuori della copertura del titolo di legittimazione.
Va, infatti, ribadita, la distinzione tra controllo del territorio e controllo sulla legittimità dei titoli che ne consentono le modifiche.
Il primo, quale strumento conferito per dare effettività alle scelte di pianificazione urbanistica rimesse all’Ente locale, attiene alla verifica, effettuabile senza limiti di tempo, della conformità degli interventi al regime di edificabilità dei suoli per come cristallizzati nei titoli edilizi, ove rilasciati, ovvero all’illecita realizzazione in assenza degli stessi di modifiche che in qualche modo impattino sul territorio; il secondo, invece, implica, a monte e preventivamente, la verifica della sussistenza dei presupposti per assentire una determinata richiesta di esercizio dello ius aedificandi, onde valutare la possibilità del loro annullamento (o della loro decadenza), sussistendone i presupposti di legge, volti a contemperare le esigenze di tutela della legalità con quelle di certezza delle situazioni giuridiche e di legittimo affidamento che il privato ripone nella correttezza dell’operato della pubblica amministrazione.
Le conclusioni raggiunte non escludono, quindi, la perdurante possibilità che il Comune possa continuare ad esercitare il potere di vigilanza sul proprio territorio ai sensi del citato art. 27, anche a fronte del rilascio dell’autorizzazione unica di cui all’art. 208, del d.lgs. n. 152/2006.
Il potere di vigilanza in esame, tuttavia, deve mirare a salvaguardare l’interesse pubblico al corretto sviluppo del territorio, quale estremo rimedio per cauterizzare situazioni illecite, in particolare al fine di “recuperare” al procedimento sanzionatorio, tutto ciò che esula dal modello tipologico prescelto, non solo quanto se ne distacchi in fase esecutiva (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415). Tale potere non può, però, essere surrettiziamente esercitato come una sorta di potere di secondo grado privo di limiti temporali, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per assentire una determinata richiesta di esercizio dello ius aedificandi, ponendo nel nulla le esigenze di semplificazione sottese alla disciplina dell’autorizzazione di che trattasi.
A tutto volere concedere, laddove il Comune, nel corso dell’esercizio del proprio potere di vigilanza, ai sensi del più volte citato art. 27, dovesse riscontrare la presenza di vizi relativi al provvedimento di autorizzazione unica di che trattasi dovrebbe segnalare alla Regione l’opportunità di intraprendere un procedimento di riesame, nel rispetto dei principi di garanzia propri del contrarius actus.
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