TAR Lazio – Roma, Sez. II, Sent. 07.07.2023 n. 11418
Ai fini dell’identificazione del regime abilitativo edilizio, per la qualificazione di un’opera come precaria, occorre riferirsi non tanto e non solo alla consistenza strutturale e all’ancoraggio al suolo dei materiali di cui si compone, ma condurre l’esame in termini funzionali, accertando se si tratta di un’opera destinata a soddisfare bisogni duraturi, ancorché realizzata in modo da poter essere agevolmente rimossa. […]
La natura precaria di un manufatto deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell’opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo o la temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dal costruttore (quest’ultima peraltro in alcun modo dedotta ed anzi contraddetta dalla presentazione di istanza di sanatoria proprio al fine di rendere legittime e stabili le opere), non dovendo l’opera precaria comportare una trasformazione irreversibile del territorio e l’accertamento della natura precaria dell’intervento deve essere effettuato secondo un criterio obiettivo: perché un’opera possa essere qualificata come precaria, deve trattarsi di un intervento oggettivamente finalizzato ad un uso temporaneo e limitato.
Il concetto di precarietà va distinto, quindi, da quello di amovibilità, non essendo quest’ultimo coessenziale per l’individuazione della natura precaria dell’opera realizzata e ciò coerentemente con l’art. 3, lettera d, punto e.5, che disciplina le strutture leggere, espungendo dalla nozione di ristrutturazione edilizia solo quelle opere che siano destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee.